Omelia per la festa della Sacra Famiglia 2020

27/12/2020

Si conclude una tre giorni molto intensa di feste e di appuntamenti religiosi.

Abbiamo iniziato con la notte di Natale, poi il giorno di Natale, cui è seguita la festa di santo Stefano, e oggi la festa della famiglia.

Tutti motivi ed eventi che meriterebbero tante riflessioni e che di conseguenza offrirebbero tanti spunti per attualizzare nella nostra vita le riflessioni. Perché non restino soltanto parole, le nostre esperienze celebrative. La Parola di Dio non è detta perché resti qui in chiesa ma perché arrivi nelle nostre case, perché cambi i nostri stili di vita.

E ci aiuti a vivere con speranza anche questo tempo.

Prendiamo ad esempio la festa di oggi. La prima domenica dopo Natale è sempre festa della famiglia. Dal Concilio in poi.

Dio è nato in una famiglia. Ha fatto esperienza di famiglia. È vissuto in una famiglia. Nella normalità, nella banalità, nella straordinarietà di una vita di famiglia.

Nella famiglia di allora. Non è nato in una famiglia di oggi. Ma in una famiglia di allora.

E per di più in una famiglia povera. Ne è prova l’offerta che hanno fatto i suoi genitori: due giovani colombe. Dove, se in quel giorno il papà non lavorava, la sera in famiglia non si mangiava.

L’altro aspetto: la famiglia di Nazaret dovrebbe essere modello per le nostre famiglie: è realistico?

È una famiglia che per certi versi è unica.

Ma, allora, in cosa è modello?

Ci è di modello nell’ascolto e nella fiducia in Dio.

Lo abbiamo visto nella figura di Maria: ha detto di sì con prontezza, generosità ed entusiasmo alla volontà di Dio. E così Giuseppe. A questo proposito consiglio di leggere la bellissima lettera che ha scritto papa Francesco su san Giuseppe.

Ve ne leggo due brevi passaggi, utili naturalmente ai papà ma anche a tutti coloro che hanno compiti di custodia.

Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti.

Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa di oggi ha bisogno di padri.

Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze.

Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita.

Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici.

Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù.

Questo per quanto riguarda i padri e le madri.

Ma anche per quanto riguarda i figli.

Mentre non tutti sono padri, tutti siamo figli.

Cosa vuol dire essere figli come Gesù?

Che figlio era Gesù?

Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini.

Ecco in due righe il mestiere di figli.

Crescere in sapienza. Imparare a distinguere il bene e il male. Seguire il bene e lasciare o combattere il male (dentro di sé, innanzitutto).

Crescere in età: non fare il bambino per tutta la vita, o l’adolescente. O far finta di essere giovane anche quando non lo si è più.

Crescere in grazia. Grazia vuol dire riconoscere che sei un dono di Dio, e la vita si realizza se tu sei dono agli altri.

Gesù ha imparato da Maria a servire, a pregare, ad amare. Da Giuseppe ad essere uomo, giusto e attento ai poveri.

Il vangelo di oggi, ci descrive anche un contesto in cui è nato e vissuto Gesù. Giuseppe e Maria erano credenti fedeli e osservanti della Legge di Dio data a Mosè, dunque ogni anno facevano la salita, il pellegrinaggio alla città santa di Gerusalemme in occasione della festa di Pasqua, memoriale della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto.

Nel vangelo di oggi, ci viene detto che Gesù, nascendo in una famiglia, è vissuto anche in un contesto sociale e religioso che lo ha rifiutato, perseguitato, ma anche accolto.

Due anziani, Simeone e Anna, lo hanno accolto. Maria e Giuseppe non fanno nemmeno in tempo a entrare nel tempio che subito le braccia di un uomo e di una donna si contendono il bambino. I due anziani lo coprono di carezze e di sorrisi, passa dall'uno all'altro il futuro del mondo: la vecchiaia del mondo che accoglie fra le sue braccia l'eterna giovinezza di Dio.

Il piccolo bambino è accolto non dagli uomini delle istituzioni, ma da un anziano e un'anziana senza ruolo ufficiale, però due innamorati di Dio che hanno occhi velati dalla vecchiaia ma ancora accesi dal desiderio. Perché Gesù non appartiene ad una istituzione, ma all'umanità.

L'incarnazione è Dio che riempie le sue creature del suo amore, sia nella vita che finisce sia in quella che fiorisce.

Lodiamo Dio che è nato e vissuto in una famiglia, condividendo gioie e fatiche dello stare insieme. Impariamo ad essere padri e madri, nonni e nonne, chiese e società, nell’accogliere Gesù e nell’accoglierci come fratelli e sorelle. Le famiglie siano sorgente di speranza.