Il Papa ai giovani: “Aspiriamo a un di più che nessuna realtà creata ci può dare”

05/08/2025
Pubblichiamo la prima parte dell’omelia di Papa Leone a Tor Vergata che ha concluso il Giubileo dei giovani al quale hanno partecipato anche 160 forlivesi accompagnati dal vescovo mons. Livio Corazza, da don Andrea Carubia, responsabile della pastorale giovanile diocesana e incaricato della pastorale giovanile della Conferenza episcopale dell’Emilia-Romagna, da don Massimo Masini, parroco dell’Unità pastorale di San Martino in Strada e da don Francesco Agatensi, cappellano di Forlimpopoli.

Carissimi giovani,
dopo la Veglia vissuta assieme ieri sera, ci ritroviamo oggi per celebrare l'Eucaristia, Sacramento del dono totale di Sé che il Signore ha fatto per noi. Possiamo immaginare di ripercorrere, in questa esperienza, il cammino compiuto la sera di Pasqua dai discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35): prima si allontanavano da Gerusalemme intimoriti e delusi; andavano via convinti che, dopo la morte di Gesù, non ci fosse più niente da aspettarsi, niente in cui sperare. E invece hanno incontrato proprio Lui, lo hanno accolto come compagno di viaggio, lo hanno ascoltato mentre spiegava loro le Scritture, e infine lo hanno riconosciuto allo spezzare del pane. I loro occhi allora si sono aperti e l'annuncio gioioso della Pasqua ha trovato posto nel loro cuore.
La liturgia odierna non ci parla direttamente di questo episodio, ma ci aiuta a riflettere su ciò che in esso si narra: l'incontro con Cristo Risorto che cambia la nostra esistenza, che illumina i nostri affetti, desideri, pensieri.
La prima Lettura, tratta dal Libro del Qoelet, ci invita a prendere contatto, come i due discepoli di cui abbiamo parlato, con l'esperienza del nostro limite, della finitezza delle cose che passano (cfr Qo 1,2;2,21-23); e il Salmo responsoriale, che le fa eco, ci propone l'immagine dell'«erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca» (Sal 90,5-6). Sono due richiami forti, forse un po' scioccanti, che però non devono spaventarci, quasi fossero argomenti "tabù", da evitare. La fragilità di cui ci parlano, infatti, è parte della meraviglia che siamo. Pensiamo al simbolo dell'erba: non è bellissimo un prato in fiore? Certo, è delicato, fatto di steli esili, vulnerabili, soggetti a seccarsi, piegarsi, spezzarsi, e però al tempo stesso subito rimpiazzati da altri che spuntano dopo di loro, e di cui generosamente i primi si fanno nutrimento e concime, con il loro consumarsi sul terreno. È così che vive il campo, rinnovandosi continuamente, e anche durante i mesi gelidi dell'inverno, quando tutto sembra tacere, la sua energia freme sotto terra e si prepara ad esplodere, a primavera, in mille colori.
Noi pure, cari amici, siamo fatti così: siamo fatti per questo. Non per una vita dove tutto è scontato e fermo, ma per un'esistenza che si rigenera costantemente nel dono, nell'amore. E così aspiriamo continuamente a un "di più" che nessuna realtà creata ci può dare; sentiamo una sete grande e bruciante a tal punto, che nessuna bevanda di questo mondo la può estinguere. Di fronte ad essa, non inganniamo il nostro cuore, cercando di spegnerla con surrogati inefficaci! Ascoltiamola, piuttosto! Facciamone uno sgabello su cui salire per affacciarci, come bambini, in punta di piedi, alla finestra dell'incontro con Dio. Ci troveremo di fronte a Lui, che ci aspetta, anzi che bussa gentilmente al vetro della nostra anima (cfr Ap 3,20). Ed è bello, anche a vent’anni, spalancargli il cuore, permettergli di entrare, per poi avventurarci con Lui verso gli spazi eterni dell'infinito.
Sant'Agostino, parlando della sua intensa ricerca di Dio, si chiedeva: «Qual è allora l'oggetto della nostra speranza […]? È la terra? No. Qualcosa che deriva dalla terra, come l'oro, l'argento, l'albero, la messe, l'acqua […]? Queste cose piacciono, sono belle queste cose, sono buone queste cose» (Sermo 313/F, 3). E concludeva: «Ricerca chi le ha fatte, egli è la tua speranza» (ibid.). Pensando, poi, al cammino che aveva percorso, pregava dicendo: «Tu [Signore] eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo […]. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai (cfr Sal 33,9; 1Pt 2,3) e ho fame e sete (cfr Mt 5,6; 1Cor 4,11); mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace» (Confessiones, 10, 27).